PROPOSTA PER UNA CATALOGAZIONE CRONOLOGICA DEGLI EVENTI FRANOSI

 

Alessandro Tomaselli e Luigi Perasso, geologi

 

 

INTRODUZIONE

 

Per frana si intende un movimento di terra o di roccia lungo un versante, dovuto principalmente alla forza di gravità (vedi ad es., Varnes, 1978, Cruden, 1991, Dikau et al., 1996).

L’UNESCO (1993), per l’inventario delle frane, ha prodotto un glossario “standard” internazionale, unificando termini e definizioni che, tranne per alcuni problemi, ancora in fase di discussione, sono sufficientemente univoci e autorevoli.

In Italia, per i fenomeni franosi, buoni strumenti di conoscenza sono i piani di bacino. Si tratta di un livello di pianificazione che ha avuto avvio con la l.n.183/89 e che è stato dotato, strada facendo, di un notevole corpo di specifiche, sia per le legende che per l’informatizzazione. Ad esempio, la Regione Liguria (1997) dopo aver prodotto la l.r.n.9/93 che ne ha specificato i contenuti, ha emanato con la collaborazione delle Province delegate in materia di difesa del suolo, una serie di raccomandazioni che ormai costituiscono un riferimento anche nella prassi.

Tra gli standard citati esistono, tuttavia, alcune incongruenze; ad esempio l’UNESCO (1993), in merito allo stato di attività delle frane, indica: attivo, sospeso, riattivato, stabilizzato, abbandonato e relitto (Tab.1).

 

Stato di attività

descrizione

Attiva

si muove attualmente

sospesa

non è attiva ma si è mossa nell’ultimo anno

riattivata

è attiva attualmente ma per più di un anno non si è mossa

inattiva

non si è mossa nell’ultimo anno

quiescente

è inattiva ma può essere riattivata

abbandonata

è inattiva e non è più interessata dalle sue cause originali

stabilizzata

è inattiva ed è stata protetta dalle cause originali con un intervento

Relitta

è inattiva e si è sviluppata sotto condizioni geomorfologiche e climatiche considerevolmente diverse dalle attuali

 

Tab.1 – Stato di attività delle frane (UNESCO,1993)

 

 

La legenda delle raccomandazioni regionali (1997) individua 2 stati, attivo e quiescente, demandando le ulteriori specificazioni ai contenuti di una scheda che adotta, correttamente, lo standard UNESCO (1993): attivo, sospeso, riattivato, stabilizzato, abbandonato, relitto. Pertanto si può avere ambiguità: ad esempio, una frana, classificata relitta sulla scheda, può essere indicata sulla cartografia come quiescente.

La classificazione più esauriente riguardo alla tipologia di frana sembra essere quella di Dikau et al. (1996) che, in una dettagliata revisione della vasta letteratura comprendente, ad esempio, i lavori di Varnes (1978) e Hutchinson (1988), prevede alcune classi principali, a loro volta aggregabili in cinque classi (vedi, ad es., Lombardi et al., 1998): crolli/ribaltamenti, scivolamenti/scorrimenti, flussi di roccia, flussi di detrito, espansioni laterali (Fig.1).

L’atto di indirizzo della l.n.267/1998 (D.P.C.M. 29/9/1998) entra nel merito di legende e definizioni e, ad esempio, introduce una legenda per le aree a franosità diffusa, strumento utile, nella pratica, per indicare zone dove sono diffusi piccoli movimenti superficiali singolarmente non cartografabili.

Il territorio italiano, allo stato attuale, oltre che dai piani di bacino, è coperto da un certo numero di inventari e censimenti di frane che analizzano il fenomeno soprattutto dal punto di vista della distribuzione spaziale. Ad esempio, il Ministero dei lavori pubblici (1964) è autore di un elenco di movimenti franosi, organizzato per regioni, con indicazioni alfanumeriche su comune, località, tipo di movimento, superficie e manufatti coinvolti; il CNR, attraverso il progetto SCAI (Studio sui Centri Abitati Instabili, vedi ad es., Luino et al, 1994; Federici et al., 2001), in collaborazione con le Università e le Regioni redige su base provinciale un atlante, con approfondimenti sulle principali frane che coinvolgono i nuclei urbanizzati o rurali più importanti; le regioni, tramite la L.n.267/98, hanno redatto le carte inventario dei corpi franosi (vedi, ad es., Regione Liguria, 1999; Gorziglia, 2000). L’IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi Italiani), progetto in corso di realizzazione, si occupa di eseguire approfondimenti e schedature delle principali frane già censite reintroducendo nuovamente il termine “fenomeno franoso” che già Canuti e Casagli (1994), dopo Cruden (1991), avevano suggerito di rimpiazzare più semplicemente col termine “frana”.

 

 

Fig.1 – Esempi dei principali tipi di frana (ridisegnato da UNESCO, 1993; Dikau et al., 1996; CNR, 1996; Regione Liguria, 1997)

 

 

Accanto ai censimenti di carattere nazionale, possiamo annoverare inventari, osservatori e cataloghi di carattere locale come, ad esempio, l’Osservatorio dei rischi idrogeologici della Provincia di Genova (Tomaselli e Colombo, 1999b; Tomaselli A. e Falcioni C., in stampa), lo studio per il Programma di Previsione e Prevenzione di Protezione Civile della Provincia di Genova (Perasso, 2001), strumenti conoscitivi di protezione civile ed i vari livelli di pianificazione e programmazione (vedi, ad es., De Stefanis, 1969; Pesenti, 1987) fra cui i Piani Urbanistici Comunali che sempre più hanno l’obbligo di approfondire le tematiche riguardanti frane e inondazioni (vedi ad es., Regione Lombardia, 2001). Numerosi altri censimenti, più circoscritti, riguardano aree ridotte, con finalità di approfondimento (vedi ad es., Cancelli et al., 1991; Pedone et al., 1999; Raccosta, 2000).

I censimenti citati, come sopra accennato, danno informazioni sulla distribuzione nello spazio di forme riguardanti frane sulle quali, rispetto alla data, si conosce poco e in modo frammentario. In un caso, tuttavia, avviene il contrario: nel catalogo “AVI” (vedi ad es., Cipolla et al., 1994), il più completo, se non l’unico, in Italia dal punto di vista cronologico, viene riportata la data ma con un informazione geografica poco dettagliata. Del resto si tratta di notizie desunte dai quotidiani e quindi, prive di esatta ubicazione cartografica.

Per avere informazione riguardo ai movimenti in atto, recentemente, è stato proposto l’utilizzo di tecniche satellitari radar interferometriche, per l’analisi di movimenti lenti del terreno (vedi, ad es., Bo et al., 2001). Essendo i dati derivanti da tale tecnica, per loro natura, legati all’informazione cronologica, se affidabili, potranno dare un notevole contributo anche alla soluzione di problemi cronologici. I limiti attuali sono rappresentati dalla frammentarietà dei dati, dai costi, dalla complessità delle elaborazioni e dalla elevata quantità di informazioni complementari da assumere.

A molti dei censimenti esistenti sono legati degli archivi informatici. A livello nazionale, il catalogo AVI, alfanumerico, è disponibile in rete (CNR, 2000). La Regione Liguria possiede una “banca dati”, che ha avuto avvio in forma alfa-numerica, con le tabelle SINA - SIREBA, ed è stata poi integrata con la parte grafica e G.I.S. di altre basi (vedi, ad es., Alloisio et al., 2000). La Provincia di Genova gestisce i sistemi informativi geografici dei Piani di Bacino e dell’Osservatorio dei rischi idrogeologici. Del primo, sviluppato sulla base di un progetto realizzato dalla Regione Liguria, sono rese disponibili in rete le cartografie (Regione Liguria, 1998; Tomaselli e Colombo, 1999a; Tomaselli e Colombo, 1999b; Lombardi et al., 2000).

Tutti gli studi prodotti, in particolare quelli di bacino (vedi ad es., Provincia di Genova, 2001), per le implicazioni normative introdotte, hanno avuto l’effetto di aumentare il numero delle frane di cui si ha notizia. Ciò ha creato alcuni timori nelle popolazioni interessate ma anche una maggiore consapevolezza del pericolo potenziale. Sulla quantificazione di tale grandezza e sui relativi dati occorrenti è perciò importante concentrare approfondimenti e considerazioni. Tra l’altro le leggi più recenti, fra quelle citate (vedi ad es., L.n.267/98), introducono obbligatoriamente la valutazione della pericolosità da frana.

In altre materie, dove la raccolta dei dati di base è maggiormente sistematica, tale stima è legata alla grandezza comunemente chiamata “periodo di ritorno”. In sismologia, ad esempio, si è osservato che grandi terremoti avverranno, prima o poi, dove terremoti più piccoli sono già avvenuti. Questa osservazione, fatta nel mondo intero, sta alla base della previsione del pericolo sismico che, in sintesi, è la probabilità di avvenimento di una scossa sismica di determinata intensità, in un certo luogo (vedi, ad es., Deichmann e Fäh, 2002).

Analogamente il pericolo idraulico è la probabilità di accadimento di un evento di inondazione di una certa portata, in un determinato luogo: è espresso come un valore di portata legato a una frequenza (inverso del tempo o periodo di ritorno) ed è calcolato sulla base di serie storiche di eventi piovosi (vedi, ad es., Provincia di Genova, 2001).

La definizione di pericolo, del resto, è stata unificata dall’UNESCO (vedi, ad es., Canuti e Casagli, 1994) come la probabilità che un evento di una certa intensità avvenga in un certo luogo e in un dato periodo di tempo.

Anche nel campo delle frane, molto spesso, la previsione dei fenomeni futuri si basa sul quadro dei movimenti di versante passati o presenti per cui già la previsione spaziale può fornire indirettamente indicazioni qualitative sulla probabilità di occorrenza; il motivo risiede nel fatto che la maggior parte delle frane costituiscono riattivazioni di precedenti eventi.

Per una prima conoscenza del pericolo di frana occorre quindi, anzitutto, operare l’assunzione, analogamente a quanto visto per i terremoti, che la frana si manifesta dove si è già manifestata in passato. Tale assunzione ha, però, un limite di cui occorre tenere conto, in qualche misura: a volte una frana può ricondurre un versante a una situazione di maggiore equilibrio; inoltre le frane di prima generazione sono più distruttive (hanno una maggiore intensità) in quanto caratterizzate da rottura maggiormente legata al campo fragile (vedi, ad es., Commissione Interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, 1974; Canuti e Casagli, 1994);

Per la valutazione della pericolosità, ancora Canuti e Casagli (1994), in Italia, hanno svolto un ampio lavoro di revisione dei metodi utilizzabili. In particolare, oltre alle previsioni di spazio, tempo e intensità di accadimento (che sono implicite nel concetto di pericolo), è possibile stimare tipologia ed evoluzione.

Nella previsione spaziale, ad esempio, è possibile procedere con valutazioni empiriche basate sia sui censimenti che sulla cartografia tematica; oppure si possono indicizzare gli effetti, cioè analizzare la distribuzione delle frane, ad esempio, attraverso le relazioni tra le superfici di frana e di alcuni temi quali la litologia o l’acclività, anche come suggerito dalla Commissione Interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo (1974); oppure ancora si indicizzano le cause assegnando pesi diversi a classi diverse di vari temi (vedi, ad es., Panizza, 1990; Provincia di Genova, 1995; Regione Liguria, 2000); inoltre possono essere eseguite analisi statistiche, probabilistiche, cinematiche, morfometriche (su forma e dimensioni dei pendii) e sul fattore di sicurezza.

Anche per la previsione temporale, che consiste nella definizione della probabilità di occorrenza dei fenomeni franosi, sono disponibili più metodi: stima empirica, analisi di serie temporali degli effetti o delle cause, monitoraggi. In generale la frequenza con cui un evento franoso si manifesta può essere considerata indice della propensione a franare del versante che lo contiene. In particolare, nell’analisi di serie relative agli effetti si può scrivere

 

f(N)=n/N

 

dove f(N) è la frequenza ed n il numero degli eventi franosi, mentre N è la finestra temporale considerata (numero di anni). Su questa base si può successivamente procedere al calcolo della probabilità di occorrenza P e della pericolosità H.

Una volta stimato il pericolo per ogni fenomeno, il passo successivo è quello della determinazione del rischio. In merito a tale valutazione vi è convergenza fra gli strumenti legislativi e lo standard internazionale: l’atto di indirizzo della l.n.267/1998 (d.p.c.m. 29/9/1998) ha imposto valutazioni coerenti con le definizioni UNESCO (1984), in modo analogo a quanto avviene da tempo per il rischio sismico.

Una fonte preziosa di informazioni, strettamente legata al rischio, è il censimento dei danni alluvionali che le Regioni predispongono per la gestione degli interventi di finanziamento (vedi, ad es., Regione Liguria, 2001). Alle schede che gli enti locali compilano sono allegate delle mappe che possono essere considerate delle vere e proprie analisi di rischio a posteriori (vedi ad es., Perasso, 2001).

Obiettivo della breve nota è di proporre un catalogo delle frane finalizzato al miglioramento delle mappe di pericolo e quindi di rischio, sul modello di altri inventari di fenomeni naturali (vedi ad es., Ministero dei lavori pubblici, 1957; Postpischl, 1985; Eva et al., 1992), organizzato per eventi, ordinati cronologicamente e descritti dalla data, da una figura piana di coordinate conoscibili (con stima dell’errore) e da una valutazione dell’intensità.

 

 

PROPOSTA DI DEFINIZIONI

 

Ragionando per analogia con altri processi potenzialmente “pericolosi”, osserviamo che in meteorologia, in idraulica ed in sismologia si cerca di descrivere anzitutto l’evento (piovoso, di piena o sismico). Pertanto, si propone di riferirsi al concetto di “evento franoso”, inteso come frana che si esplica con tale intensità e in un lasso di tempo talmente breve da dare effetti visibili immediati sul terreno (come, ad es., in Fig.2). In generale sono conoscibili il tempo in cui si è prodotto, definito come tempo origine, e l’area interessata. Le riattivazioni, o frane di ennesima generazione, sono trattabili anzitutto come eventi franosi a sé stanti (quindi con un perimetro e un tempo origine) e in un secondo tempo, dopo un passaggio interpretativo, come in relazione ad uno o più eventi precedenti.

Nell’analisi di un pendio, considerato franoso, infatti, se si analizza la velocità dei movimenti, possiamo osservare che questa varia nel tempo e nello spazio. Tale variazione è legata sia alle precipitazioni che agli altri fattori causali, come la litologia, la pendenza e l’uso del suolo.

Alla stessa conclusione si può giungere a partire da considerazioni sulla reologia dei materiali. E’ noto, infatti, che, nei problemi di resistenza agli sforzi di taglio, sia nei terreni che nelle rocce, la superficie di scorrimento (di un campione di terra o di roccia, di una faglia o di una frana), a qualsiasi scala, non è mai liscia ma scabra e che, oltre all’attrito tra i singoli granuli o tra i blocchi, si realizzano mutui incastri, rotazioni relative tra i vari elementi, variazioni di volume e frantumazioni.

 

 

Fig.2 – Effetti di un evento franoso, fotografati pochi giorni dopo l’occorrenza.

 

 

In generale si può dire che su ogni singola superficie la parte soprastante il piano di rottura esegue un movimento a sobbalzi, deformandosi. Ogni volta che il blocco superiore incontra una scabrosità, subisce una forza verso l’alto che interrompe il moto. Tale corpo si muove sugli ostacoli in vario modo ed in funzione del tipo di materiali che consideriamo; ad esempio, se ambedue i blocchi sono rigidi, le scabrosità vengono asportate; un materiale rigido, in posizione sovrastante, impasta il materiale plastico sottostante, striandolo. In ogni caso la rottura è multipla e non si ha un movimento continuo su tutta la roccia.

E’ possibile, perciò, ipotizzare che si abbia una molteplicità di eventi di movimento, sia a microscala, all’interno di un singolo evento franoso, con effetti non rilevabili in superficie (per piccole asperità), che a macroscala, per eventi con effetti rilevabili e riconducibili ad un singolo evento (con asperità e ostacoli di ogni dimensione); analogamente, come in sismologia, ogni frana singola può essere considerata come una frequenza di una frana composta a lungo periodo.

Se diminuisce lo sforzo legato al moto del blocco soprastante, diminuisce l’importanza dell’ostacolo e l’energia in gioco: gli effetti osservabili in superficie diminuiscono fino a scomparire, facendo considerare l’evento concluso (secondo la definizione adottata). Può proseguire, tuttavia, un movimento lento e più regolare rilevabile solo per via strumentale.

Sempre in analogia con i sismi, è possibile definire meglio il concetto di “zona franosa”. Infatti, come è possibile distingue il sisma (o terremoto o evento sismico) dalla zona sismica, così è possibile distinguere la frana (o evento franoso) dalla zona franosa, cioè da una zona interessata da più eventi franosi. Una zona franosa può quindi essere definita, anzitutto, come un settore che è stato interessato in passato e a più riprese, da eventi franosi. E’ possibile riservare il termine “fenomeno franoso” al processo nella sua complessità, quando non sono noti o conoscibili completamente alcuni aspetti importanti come la data o il perimetro di singoli eventi sovrapposti. In tal caso vengono censite anzitutto delle forme (concave, convesse o piane) che, dopo un passaggio interpretativo, separatamente o unite insieme, possono essere indicate come fenomeno franoso o parti di esso e possono coincidere o meno con il perimetro di zone franose o di singoli eventi.

Accettando queste definizioni può essere utile distinguere anche il termine di “zona franosa” da quello di “zona a franosità diffusa”. Infatti, la prima può essere stata caratterizzata da eventi franosi di ogni dimensione e spessore, mentre alla seconda, quando non è proprio possibile una descrizione cartografica di maggior dettaglio, appartengono solo insiemi di frane piccole e superficiali. Eventualmente si potrebbe specificare meglio quanto piccole e quanto superficiali debbano essere: ad esempio, si potrebbe introdurre un fattore di correlazione, con le scale di rilevamento, imponendo una dimensione orizzontale massima ammissibile corrispondente sulla carta a 0.5cm (per qualsiasi scala considerata).

Su altri termini esistono ancora delle ambiguità che dovrebbero essere risolte. Ad esempio, per lo stato d’attività oltre a quanto già scritto, è possibile individuare esplicitamente due grandi insiemi di frane: le attive (in senso lato) e le inattive. Le prime hanno avuto dei movimenti nell’ultimo anno, le seconde no. Successivamente, all’interno di questi due gruppi, ammesso che si disponga di strumenti efficaci di rilevazione, può essere utile individuare gli stati di attività già definiti, con la seguente più univoca terminologia: attiva attiva, attiva sospesa, attiva riattivata, inattiva quiescente, inattiva abbandonata, inattiva stabilizzata, inattiva relitta.

Soffermandosi sul significato di quest’ultima, a rigore di logica, dovremmo scrivere che si tratta d’un caso particolare dell’inattiva abbandonata, perché non è più interessata dalle sue cause originali, ma ciò ne sminuirebbe l’importanza ai fini delle potenziali riattivazioni (vedi, ad es., Brancucci et al., 1982). In ogni caso bisognerebbe riservare il termine relitta (meglio che paleofrana) a quelle frane di cui non siano noti considerevoli segni di attività, in tempi storici, in una sua parte importante.

A proposito di tempo, inoltre, si propone di quantificare numericamente lo stato di attività introducendo il concetto di “età d’inattività (e)”, cioè il periodo compreso tra la fine del movimento e il presente. Ciò consentirebbe di definire numericamente alcuni stati: ad esempio e≤1anno: attiva nella sua accezione generica, vale a dire con movimenti nell’ultimo anno, e=0anni: attiva attiva, 0<e<1anno: attiva sospesa, e>1anno: inattiva, etc. Per le frane relitte, ad esempio, l’età di inattività potrebbe essere e>10.000anni e cioè riguardante un epoca pre-olocenica (attività precedente o di poco susseguente alla fine dell’ultima glaciazione).

            Altro problema legato allo stato d’attività è se sia lecito distinguere diversi stati all’interno di una frana, data l’influenza sulla pericolosità. Una frana, come visto, è attiva attiva se si muove al presente, per cui, a rigor di logica, basta che si stia muovendo una sua parte per rendere vera questa proposizione. Forse, potremmo specificare che questa parte debba essere considerevolmente ampia e definirne la dimensione minima; tuttavia, come detto, la maggior parte dei censimenti, disponibili attualmente, riguarda la distribuzione nello spazio di forme, in parte relitte, in parte costituite dalla stratificazione di più eventi; solo raramente si tratta di un’unica frana (evento franoso) di cui è noto il tempo di distacco (tempo origine) e di cui si ha ragionevole sicurezza sull’unitarietà delle sue parti. Per questo motivo, dove possibile, una sua graduazione, all’interno di una forma censita, si rende spesso necessaria.

Nella pratica, infatti, si ha a che fare con porzioni di paleofrane, che potremmo più opportunamente definire “relitti di frana” (analogamente a quanto avviene per i minerali più vecchi all’interno di una roccia metamorfica), al margine o nelle immediate vicinanze delle quali potremmo avere avuto o l’erosione della restante parte o la sovrapposizione e relativa stratificazione di una o più frane quiescenti, stabilizzate o attive.

In generale, comunque, ogni discussione sullo stato di attività, rischia di essere una speculazione priva di utilità pratica e, forse, fuorviante. Le specificazioni di cui sopra, infatti, sembrano fin troppo dettagliate rispetto agli strumenti attualmente a disposizione per lo studio e la classificazione: rilievi geomorfologici di superficie, telerilevamenti poco efficaci o con frequenza assai rada e, in pochi rarissimi casi, qualche inclinometro letto da pochi anni e in modo discontinuo. Le definizioni, inoltre, comprendono sempre riferimenti a parametri cinematici attualmente misurati in modo occasionale. Viene da domandarsi, perciò, se non sarebbe meglio ridurre la valutazione alla dicotomia attiva/inattiva, specificando sempre il metodo con cui la si rileva e spostando l’accento sulla pericolosità della frana o della zona franosa in quanto tale.

Se, poi, accettassimo di ragionare per eventi, probabilmente andremmo a distinguere non più diversi stati di attività, ma diversi eventi franosi (quelli che vengono chiamati frane di seconda o ennesima generazione o riattivazioni). Perciò lo stato di attività perderebbe di interesse; oppure rimarrebbe semplicemente un attributo da assegnare ad una determinata zona franosa più che ad un singolo evento o frana, solo dopo avere eseguito l’analisi su una congrua serie temporale di eventi.

Lo stesso discorso può valere per la tipologia, il cui riconoscimento può essere non meno difficile, data la non rara presenza contemporanea di più meccanismi di rottura. Anche in questo caso, la proposta di ricorrere a un’accettazione più diffusa della classificazione che individua sostanzialmente quattro gruppi: crolli/ribaltamenti, scivolamenti/scorrimenti, flussi di roccia (DGPV) o detrito s.l. (colate e colamenti), espansioni laterali e quindi una revisione degli standard “non in linea” o, peggio, erronei.

 

 

PROPOSTA E DISCUSSIONE DI UN METODO

 

Nella pratica delle elaborazioni dei “piani 180”, è divenuta palese la difficoltà di mettere gli utenti di fronte all’evidenza di alcuni fenomeni franosi, proprio perché si dispone di mappature, a volte anche molto dettagliate, ma prive di date sufficientemente certe e precise. Nei pochi casi in cui ciò avviene, il margine di errore è elevato e la precisione bassa. Nella maggior parte degli studi, quindi, il punto debole è il tempo origine dell’evento. Al contrario, come sopra accennato, esistono numerosi casi in cui si conosce la data ma non la forma. A questo si aggiunge una generale tendenza all’oblio dei fenomeni, una volta superata l’emergenza legata ad un determinato periodo di precipitazioni intense.

            Ciò può essere dovuto al metodo con cui, nella prassi, si rilevano la maggior parte dei dati sulle frane. In generale, delimitata una zona d’interesse, si “legge” la superficie del terreno, evidenziando forme d’erosione e deposito e interpretando, ove possibile, i processi che li hanno originati. Nella stragrande maggioranza dei casi, tale lettura avviene molto “a posteriori” rispetto al singolo evento franoso.

Altre volte si rileva solo il corpo o la corona, oppure entrambe ma separatamente, trascurando la scarpata, il piede o i fianchi. La forma rilevata, poi, può essere determinata da più eventi sovrapposti, facendo nascere la sensazione che nelle carte di inventario delle frane siano censite, soprattutto, zone franose costituite da più eventi.

A partire da queste informazioni, è divenuto passaggio obbligato, nonostante la molteplicità dei metodi, che la maggior parte delle carte di pericolosità da frana (e della suscettività al dissesto) sia redatta attraverso metodi a indici. Si individuano, cioè, zone in cui si sommano diversi fattori causali ritenuti significativi nel predisporre l’innesco di una frana. Il limite è che, dato il margine di soggettività, dovuto alla scelta dei pesi e di errore dovuto alla rilevazione dei fattori, si finisce spesso per sommare gli effetti, cioè le frane, alle cause, tenendo in minor conto il lavoro svolto sugli indici. Una delle possibili conseguenze sfavorevoli è quella di sottovalutare aree potenzialmente pericolose per la somma di fattori, probabili cause, anche se prive di forme di frana censite.

Per ovviare a questi inconvenienti si propone, quindi, un’azione tesa al miglioramento delle mappe di pericolo, con una quantificazione che riduca i margini di soggettività. E’ possibile, ad esempio, stabilire con che frequenza, su di un certo versante o in una sua porzione, si verifichi un evento franoso. Infatti, la previsione temporale nella valutazione della pericolosità, può contenere un minor margine di errore, per graduare il pericolo e conseguentemente il rischio, ma solo a fronte di una raccolta sistematica del dato temporale.

Per tale previsione, abbiamo visto che la maggior parte delle informazioni disponibili sulle frane non è sufficiente: essa si riferisce, cioè, a poligoni che non sempre delimitano un singolo evento franoso e, in tal caso, raramente sono associabili a un tempo origine. Al contrario, un’alternativa semplice ed efficace, per stabilire (tra un certo numero di anni) quale sia la propensione a franare di un certo versante, sta nel costituire un catalogo cronologico degli eventi franosi perimetrati, senza trascurare quelli di minori dimensioni.

Infatti la velocità dei movimenti franosi, come visto, varia nel tempo e nello spazio, al punto da tendere ad annullarsi o a crescere improvvisamente in funzione sia delle precipitazioni che di altri fattori, tra cui il tipo di terreno o di roccia e/o le variazioni di pendenza. Tale crescita improvvisa è quella che determina gli effetti visibili, in superficie, e pericolosi. Perciò, può essere efficace il censimento dei singoli eventi franosi, intesi come insiemi di tempo e luogo di origine delle figure piane che li rappresentano. Tra l’altro, l’evento franoso (diversamente da quello sismico, ad esempio) ha il vantaggio di pemettere la perimetrazione dell’area focale direttamente e con buona precisione, perfino trascorso un certo periodo dal tempo origine.

Tale perimetro, nell’assenza o nella indisponibilità di dati strumentali (geodetici, inclinometrici, deformometrici, da microreti sismiche etc.) che registrino continuamente e a maglia sufficientemente piccola i movimenti della superficie terrestre, in attesa del miglioramento delle tecniche di telerilevamento satellitare e radar (che attualmente hanno margini di confidenza considerevoli, specie per i piccoli eventi e su versanti acclivi, ma con costi elevati), è rilevabile con pochi mezzi (l’osservazione diretta), giorno per giorno, o solo successivamente all’evento meteorologico, a livello regionale, provinciale o di comunità montane, a cominciare con un rilievo di superficie degli eventi franosi attuali.

Sostanzialmente si propone di unire il metodo geomorfologico di riconoscimento delle forme e dei processi legati alla frana (concavità, convessità, erosione, deposito, corona, scarpate, corpo, fianchi e piede), al metodo di classificazione degli eventi, basato su di un ordinamento cronologico.

Si tratta, cioè, di compiere un passo ulteriore rispetto agli inventari e censimenti già eseguiti e cioè aggiungere sistematicità alla raccolta del dato temporale, anche se le frane catalogate potranno essere, comunque, solo un campione della popolazione totale delle frane.

Si propone di procedere su tutto il territorio ma, in prima approssimazione, utilizzando le schede e le mappe che si compilano per il censimento dei danni alluvionali. Tali schede contengono uno stralcio cartografico in cui viene indicato grossolanamente il luogo colpito, la data e la descrizione sommaria del danno. Sono schede che potrebbero essere migliorate già alla fonte, chiedendo che siano compilate da un geologo, con l’indicazione del perimetro esatto dell’evento. Si tratta di dati da non trascurare, dato che possono svolgere il ruolo dei dati macrosismici nell’analisi dei terremoti.

Ad ogni modo, qualunque sia l’origine del dato, si propone che, in qualunque fase entro la cicatrizzazione dell’evento, uno specialista esegua un sopralluogo, riportando su una mappa (a scala opportuna) il perimetro esatto comprendente tutti gli elementi: corona, scarpata principale, fianchi, corpo, piede, unghia etc.

Il dato può così affluire, a un archivio organizzato con una mappa e una semplice tabella (vedi, ad es., Tab.2) con una riga per ogni evento che contenga data (anno, mese, giorno), ora, minuto e secondi (se rilevabili), una grandezza correlabile alla magnitudo, facilmente calcolabile (ad es. la superficie orizzontale); le coordinate possono essere archiviate in un programma grafico mentre campi accessori possono essere il tipo, l’attività, il volume, i danni, l’intensità correlata ai danni (in analogia a quella da dati macrosismici), le coordinate x, y e z (del punto più alto della frana), ricavabili dal programma grafico, con relativa stima di errore.

 

 

 

Tab.2 – Esempio di catalogo cronologico degli eventi franosi

 

 

Il primo vantaggio della base di dati cronologica proposta è la semplicità di realizzazione, fattore che influisce positivamente sui costi, sulla velocità di acquisizione dei dati e quindi sulla loro elaborazione. Vi è semplicità nel reperimento dell’informazione di base; per il rilevamento non serve riempire ridondanti schede di informazioni a volte inconsistenti; è facile descrivere l’evento franoso sulla carta in un periodo immediatamente successivo alla rottura; è semplice, soprattutto, l’archiviazione.

Un secondo vantaggio s’intravede nel miglioramento dei dati spaziali esistenti e nelle analisi sulla distribuzione geografica delle frane, sia in rapporto alle cause innescanti e predisponesti che ad altre frane. E’ possibile utilizzare l’evento come indicatore di qualità delle informazioni esistenti. I singoli eventi, infatti, possono essere contenuti in una zona a franosità diffusa o in una frana di prima generazione non conoscibile a priori. Inoltre, una frana di seconda generazione è spesso in relazione con forme riconducibili alla prima.

Un terzo vantaggio, nel procedere per eventi, si ha quando la frana di prima generazione è a cinematismo lento. In quelle note, all’interno, spesso, si osservano piccole frane di seconda generazione di cui è possibile conoscere data e perimetro. Ciò dovrebbe permettere di riconoscere, nel tempo, frane a cinematismo lento, altrimenti individuabili solo attraverso strumenti di monitoraggio.

Un ulteriore vantaggio è la possibilità di archiviare i dati, sfruttando le potenzialità dei sistemi informativi geografici, formidabile strumento di conoscenza, analisi ed archiviazione dei fenomeni localizzabili. In un tale contesto non è difficile pensare, in futuro, all’integrazione del sistema mediante l’acquisizione dei dati “in remoto”, con opportune conversioni, da sensori sia gps che radar, che inclinometrici.

L’ultimo vantaggio, ma non il minore, è l’obiettivo della presente nota: poter procedere alla valutazione della pericolosità in termini di frequenza e cioè, definire la probabilità di occorrenza dei fenomeni franosi attraverso l’analisi della serie temporale relativa agli effetti (gli eventi franosi), come nella prassi di altri settori come la sismologia e l’idraulica.

Concludendo, se in un arco di tempo abbastanza ristretto (l’ultimo decennio), il solo censimento delle forme nello spazio ha già fornito un importante quadro della franosità, è possibile, con un campione di eventi, raccolto per una finestra temporale di vent’anni, integrato con le conoscenze attuali, cominciare ad avere un quadro della distribuzione geografica delle frane che possa fornire anche indicazioni di pericolosità e di rischio più certe.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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